Articolo Ivan Stefanutti

IVAN STEFANUTTI
ovvero LA MOBILISSIMA EFFIGE.

by Gianni Gori

Passano ogni tanto sullo schermo o sul palcoscenico certi personaggi svagati come un Pierrot lunaire o come il Mimo di Jean-Louis Barrault in Les enfants du paradis: personaggi calati dalla luna per curiosare o per esercitare il proprio enigmatico potere in quella spettacolare metafora sospesa tra terra e cielo che è il Teatro; gente di teatro in carne ed ossa, artisti che l’odore e la pulviscolo di scena li respirano abitualmente, ma che non hanno ancora esaurito (e forse non la esauriranno mai) quello stupore per la “grande magia”; artefici magici che hanno conservato, nella loro flemma – più selenica che inglese – il piacere di vivere il teatro come se fosse non solo il luogo del loro “mestiere”, ma anche la proiezione della loro stessa vita.

Quando ho conosciuto e visto all’opera in presa diretta Ivan Stefanutti l’impressione è stata proprio quella della reincarnazione di un personaggio piovuto dalla “graticcia”: una sorta di giovin moschettiere rosso di pelo, un figlio segreto di D’Artagnan che si aggirava, un po’ svagato appunto (senza la supponenza imperiosa, le intemperanze di altri suoi colleghi scenografi) dal laboratorio alla sartoria, dalla consolle delle luci alle quinte, fra cantanti, comparse, attrezzisti. Spartiva istruzioni, collocava i pezzi del megapuzzle colorato proprio con la discrezione di quelle figure di nobili committenti che nei quadri rinascimentali assistono e benedicono l’episodio. O come un enigmatico Hitchcock “en travesti” che si affacci e attraversi lo schermo. Adesso però, riandando a quegli anni, lo rivedo piuttosto come “Le petit Saint”, l’angioletto di Simenon, cresciuto nascosto in una soffitta di Parigi a stendere “colori puri” sulla tela, con un occhio a Cezanne e Gaugin.

Non è facile separare l’aspetto progettuale di Stefanutti, dal bozzetto all’allestimento finale. Difficile separare le sue esperienze di costumista e di scenografo da quelle di regista; così come è difficile per me prendere le distanze, assumere quel distacco critico che qui sarebbe opportuno per tentare una sintesi del suo modo di creare luoghi, ambienti e atmosfere dello spettacolo per sé o per altri registi. Fa velo l’amicizia, oltre alla lunga collaborazione, specie al Teatro Verdi di Trieste, anche in anni che dovrei dire difficili, non fosse che oggi la situazione è tanto degenerata e rovinosa da far apparire quel fine-novecento che un roseo Eden di delizie.
Erano comunque tempi in cui, per non dover suonare e cantare solo per le banche, ai teatri lirici toccava tirare la cinghia sulla produzione; il che compensava solo in minima parte i buchi che la cinghia medesima doveva cedere alla conflittualitĂ  sindacale. Toccava comunque fare di necessitĂ  virtĂą e inventare la grande illusione teatrale evitando lo star-system e senza dover ricorrere a messinscena miliardarie. In poche parole, si dovevano spacciare capolavori di haute cousine impastando i piĂą semplici ingredienti della cucina povera.

A Trieste, in quel periodo, avevamo coinvolto addirittura il maestro del teatro povero (Josef Svoboda) in una Luisa Miller e in un Don Giovanni fatti di aria e “messi in rete” ma solo nel senso che erano modellati da un grande viluppo di rete metallica. Ivan entra nella vignetta, nel teatro di cui allora dirigevo la produzione, anche per la sua capacità di far apparire lussuoso l’allestimento più parsimonioso. Inutile negarlo: la qualità paga, ma se costa di meno “appaga” di più; almeno il teatro che si sforza di essere virtuoso. E se la mano del pittore è importante (e non sempre un grande pittore è un grande scenografo), se preziosa è la firma del creatore d’immagini, il sortilegio di saper fare spettacolo in quotidiana comunione artigianale con il teatro, rappresenta un valore aggiunto; aggiunge qualcosa di fiabesco al fascino che il sipario disvela.

Con Ivan Stefanutti vedevo convergere spesso, nel gran congegno scenico, un’armonia antica che coinvolgeva tutte le componenti dello spettacolo, compagnia di canto, artisti e figuranti compresi. Laddove la “mano” dello scenografo (o del costumista o del regista o di tutte queste specialità riunite) non è soltanto il tratto stilistico o architettonico dello scenografo che subito si riconosce (lo scenografo che a farla breve rifà sempre la stessa scena come Vivaldi che – a detta di Stravinski – scriveva sempre lo stesso concerto), ma il gradiente di fantasia che l’occasione teatrale accende.

Si dà spesso a “eclettismo” una connotazione sommaria, mentre dovrebbe essere condizione necessaria ed obbligata in un “artista di teatro” nella scelta della soluzione figurativa personale. E la chiave che apre le porte del “fare teatro” come lo fa Ivan è qualcosa che potrebbe apparire banale se non fosse fondamentale: la sua acuminata sensibilità di “illustratore”. Proprio nel senso di chi racconta una storia per immagini. E questa narrazione figurata può storicizzare o evocare altre dimensioni, ma senza essere mai fine a se stessa, compiacimento formale, esercizio criptico.

Vado per scarti di memoria e recupero dal più lontano laboratorio di esperienze momenti essenziali: una Manon di Massenet immersa, pur nell’economia dei mezzi, in sensualità alla Fragonard con un pizzico di Barry Lyndon; un Orfeo ed Euridice fra un labirinto di rocce e velluti barocchi; una Dannazione di Faust in aure preraffaellite; la sintesi pittorica di natura e allusivo fasto architettonico in Eugenio Oneghin Di qui per estremi, uno strepitoso Elisir d’amore gulliveriano fra zoo- fitomorfiche efflorescenze e puffi disincantati, anticipato dall’esplosiva fantasia cromatica del Candide di Bernstein per Reggio Emilia e poi per Genova.

Quello che guida la mano di Ivan Stefanutti, che segna la sua invenzione scenografica, mi pare sia proprio quel senso febbrile nel taglio “illustrativo”, quel piacere nel coniugare il grande Immaginario pittorico (esaltando a volte un solo elemento come la cornice dalle abnormi volute barocche nel recente Rigoletto coprodotto dai teatri di Novara, Bergamo, Lucca, Sassari) alla tradizione moderna dei grandi illustratori, imboccando persino l’impertinente sintesi della “striscia” in un piccolo ma geniale musical come In bocca al lupo. Dal crogiolo in cui Ivan intinge la “grande matita”, guizza – anche nei lavori più drammatici – un sorriso un poco malizioso ed asprigno, quasi un’ironia sottotraccia fra le mobilissime, iperboliche effigi e le trine morbide dell’opera. E ancora il senso arioso della Leggerezza; non solo nell’operetta e nel musical, di frequentazione parallela a quella dell’opera del teatro di prosa. Sia che si concentri nella dimensione ridotta sia che coinvolga gli spazi ampi del teatro all’aperto – come per le produzioni dell’Opera di Roma a Piazza di Siena (Andrea Chenier e Bohème) dove la vastità della dimensione non schiaccia la “figurinistica” eleganza del particolare – la curiosità onnivora di Stefanutti tradisce la propria simpatia per grande tradizione illustrativa: da quella parigina di Toulouse-Lautrec a quella italiana, tra le affiches di Hohenstein e di Giuseppe Palanti; e avanti ancora fino a stuzzicare, come si è visto, le creaturine impertinenti del fumetto e quelle di Jacovitti compresse nel loro ginepraio grafico.

Dicevo del graffio ironico che caratterizza il percorso creativo di Stefanutti, a volte come una firma occulta. Nel gioco di corrispondenze e di echi della fantasia nella magica selva teatrale alcune “invenzioni” sono in questo senso particolarmente significative. Non è un caso che buona parte di queste esperienze si siano realizzate entro “laboratori” periferici o in coproduzioni di  circuito provinciale. Può nascere così un’ Aida come quella del 2001 trasferita nello spazio stellare in una guerra di mondi alieni, su una scena solcata da “stele” e pinnacoli come da fendenti di marmo e di acciaio. Ancora una volta il riverbero di un’Odissea nello spazio in cui l’universalità della musica e della drammaturgia verdiana convive perfettamente.

In un laboratorio ancora più ristretto e agli antipodi rispetto ad Aida, balla purtroppo una sola estate l’escursione espressionista di un musical-rock di fortuna effimera ma di grande qualità come Metropolis (Torino, Teatro Nuovo, 2003), omaggio all’espressionismo e al mostruoso ingranaggio disumanizzante del film di Fritz Lang. E ancora l’ironia multistilistica corre appena può gli ameni paradisi profani della lirica leggera parigino-viennese: memorabili le escursioni del 1998 e del 2003 entrambe per il Verdi di Trieste. La prima con Il Conte di Lussemburgo di Lehár dove l’intrigo rocambolesco esalta la fantasia in un crogiolo e la vie parisienne si fonde con l’Immaginario della “piccola ribalta” e con la tipica “verve” figurativa di Ivan, sullo sfondo di una sontuosa vetrata floreale. La seconda con un’autentica conflagrazione del suo humour illustrativo. Che lo scenografo aveva già debitamente arroventato nel 1997 alle deliziose braci di Les Contes d’Hoffmann di Offenbach per Treviso, dove fra scultoree, inquietanti Sirene passano disinvolte presenze di Magritte. E dove le botti enormi e panciute di mastro Luther che fanno da sfondo alla ballata di Kleinzach, si ricomporranno qualche anno dopo (Fano, 2003) nell’osteria della Giarrettiera ad esaltare l’epa tronfia di Falstaff. E’ un allestimento che risolve felicemente – quasi per sottrazione di volumi (ovviamente le necessità della committenza aguzzano sempre l’ingegno) – lo spostamento dell’azione dagli interni all’esterno: i teli stesi in una sorta di arioso e colorato “bucato” diventa siparietto, paravento, velario della schermaglia scenica; il “notturno” nella foresta di Windsor si popola di maliziosi fauni azzurrini come animistiche radici, propaggini della quercia di Herne.

E qui come altrove – quando si sfogli l’Immaginario scenografico di Stefanutti e si riconoscano gli elementi ricorrenti e genialmente riformulati e quel suo gusto associativo delle strutture plastico- architettonico del classicismo e dell’invenzione illustrativa – non si può non cogliere l’affinità estetica, con la lezione di Sylvano Bussotti. Penso alla fitta partitura pittorica e grafica del compositore fiorentino esercitata in una stagione creativa rigogliosa, fra Bergkristall e Nottetempo: stagione che ricordo per esperienza diretta e in alternanza con le esperienze registiche di Bussotti sul teatro di repertorio, dal Lorenzaccio di Musset per la Fenice alla fiorentina Fanciulla del West, diretta da Gavazzeni.

Il percorso stilistico di Ivan Stefanutti conserva la fluidità inventiva di una continua modulazione al servizio del teatro; fino (ma è un approdo già superato da altri esiti professionali) a un Simon Boccanegra (Budapest, 2011) che mi sembra esemplare. Il mare, invocato dal protagonista, presenza che attrae, che invade, che alla fine copre una coltre il destino del Doge immerso nella “penombra del medioevo”, il mare ha due cupi custodi: due colossi-totem che vegliano grandiosi e impotenti. Si direbbe un’idea mozartiana innalzata a simbolo muto sulla soglia del dramma. Si pensa ai due “uomini armati” in Die Zauberflöte evocati in questa più recente messinscena verdiana.

Sarà un caso, ma trovo suggestiva l’idea che si sia infilato proprio qui, in questo tratto del mio confuso percorso, il titolo di un’opera che, per ovvie e molteplici ragioni, dovrebbe appartenere di diritto e stabilmente all’iter professionale e alle “specialità” di Ivan Stefanutti.

GIANNI GORI
E stato ricercatore e docente di Storia della Musica all’UniversitĂ  di Trieste e per oltre 25 anni critico musicale del quotidiano “Il Piccolo”. Ha collaborato a varie riviste italiane e straniere, ai programmi culturali della Rai, a mostre, a convegni ed ai programmi di sala dei maggiori teatri lirici italiani. E’ autore di programmi televisivi e originali radiofonici per la Rai. Oltre alle numerose opere saggistiche per riviste e convegni, dirige la collana delle opere di Silvio Benco per la casa editrice “La Finestra” di Trento. Nel 1985 ha ricevuto il Premio Illica per la critica musicale. Per alcuni anni direttore artistico degli “Incontri Musicali” di Gorizia, è stato dal 1989 al 2002 direttore di produzione del Teatro “G.Verdi” di Trieste. Collabora ai periodici “Musica” e “Opera International” e The Scenographer.